Reti a prova di futuro | ISPI

2022-07-24 00:45:08 By : Ms. Shelly Cui

Con la peggiore crisi energetica dagli anni Settanta, in seguito all’aggressione russa dell’Ucraina, per l’Europa le infrastrutture energetiche sono tornate a giocare un ruolo fondamentale. Ovviamente l’attenzione è focalizzata sulle infrastrutture gas visto che l’emergenza da risolvere è riuscire a emancipare, nel giro di pochi anni, il continente europeo dal ricatto del gas russo.

Ecco, quindi che si fa un gran parlare di nuovi gasdotti, come per esempio Eastmed, volto a collegare il Vecchio Continente con le immense risorse di idrocarburi presenti nel Bacino del Levante, o il gasdotto Trans-Sahariano, per il collegamento con le risorse nigeriane. Vediamo partire in gran fretta i piani per la costruzione di nuovi rigassificatori, in Paesi che ne sono completamente privi (la Germania) o sottodimensionati alle esigenze (l’Italia), che hanno il grande vantaggio di rendere accessibile il mercato globale del gas naturale liquefatto (GNL) e liberare così dal vincolo fornitore-cliente cui obbligano i gasdotti. E infine ritornano in auge progetti di nuove interconnessioni intraeuropee, come il Midi-Catalonia (MidCat) per raddoppiare i flussi di scambio di gas tra Spagna e Francia o un nuovo connettore per collegare la Catalogna con la Toscana, e rendere così usufruibile al resto d’Europa la grande capacità di rigassificazione di cui gode la penisola iberica e che oggi giace sottoutilizzata a causa delle scarse interconnessioni tra essa e il resto del Continente.

Tutte azioni e considerazioni validissime, anzi necessarie nel breve periodo, nel quale il problema da risolvere sarà quello di riscaldare i nostri edifici, alimentare le nostre industrie e tenere in piedi i nostri sistemi elettrici, dei quali oggi le centrali a gas compongono l’ossatura principale da quando hanno preso il posto delle più obsolete e inquinanti centrali a carbone e olio combustibile.

Le infrastrutture però, per loro stessa natura, non hanno un orizzonte temporale di breve periodo ma al contrario di lungo (20-30 anni) o lunghissimo periodo (oltre 30 anni). I gasdotti che oggi collegano l’Europa alla Russia trovano la loro origine tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta quando, sulla scia delle crisi del petrolio, i consumatori europei si gettarono alla ricerca di forniture alternative al petrolio mediorientale. Processo che poi alimentò, e a sua volta si rafforzò, il processo di distensione tra l’Europa Occidentale e l’allora Unione Sovietica e che sfociò poi negli accordi di Helsinki (1975). Questo risultò in una crescente interconnessione infrastrutturale tra l’allora spazio sovietico e il resto del Continente europeo che giocherà poi a discapito della cosiddetta direttrice Sud (gasdotti con Nord Africa, l’area mediorientale e centro-asiatica) fortemente invece voluta dall’Italia. Connessioni che a distanza di quasi cinquant’anni esistono ancora: anzi, basta prendere una qualsiasi cartina infrastrutturale del continente europeo, si sono rafforzate con tutte le implicazioni politiche ed economiche che l’attuale crisi Ucraina sta facendo emergere nella la loro gravità.

In altre parole, le infrastrutture creano quella che nelle scienze sociali si definisce “path dependence”, dipendenza del percorso, che fa riferimento al fatto che eventi e decisioni del passato vincolano eventi e decisioni successivi. Vista tale eredità, la pianificazione di nuove opere infrastrutturali obbliga pertanto a fare valutazioni, oltre che sulle necessità presenti anche, e soprattutto, su quelle di lungo periodo per fare in modo che, per quanto la fallace capacità di pianificazione umana lo possa permettere, tali opere possano essere il più possibile a “prova di futuro”. In questo caso, se torniamo nel tracciato ante-aggressione dell’Ucraina, vediamo che i temi che il settore energetico stava affrontando erano di natura climatico-ambientale (3/4 delle emissioni climalteranti sono a esso riconducibili) e geostrategica-industriale.

La vera sfida che attende questo settore non è quella della diversificazione delle forniture di idrocarburi (quello lo si doveva fare ieri), ma di costruire il prima possibile un’economia decarbonizzata che permetta di mitigare gli effetti del cambiamento climatico così da contenerne i costi di adattamento. Accanto a ciò saranno da costruire percorsi strategico-industriali che possano garantire la stabilità delle attuali aree produttrici (Paesi del Golfo, Nord Africa, ma anche la stessa area ex sovietica) le cui entrate fiscali dipendono oggi fortemente dalla vendita di prodotti energetici. Allo stesso tempo sarà da evitare che si riproducano simili dinamiche di dipendenza fornitore-consumatore fondate questa volta su nuove materie prime, come le terre rare, o determinate tecnologie, come i pannelli fotovoltaici o le batterie agli ioni di litio. Tutto questo puntando verso la creazione di un sistema multilaterale di scambi (materie prime, tecnologie, mercati, interconnessioni infrastrutturali) che possa, per quanto possibile viste le tendenze internazionali oggi in atto di formazione di blocchi politico-economici macroregionali in contrapposizione e concorrenza tra loro, garantire un campo d’azione il più globalizzato possibile in cui il criterio dell’efficienza economica possa prevalere su tutte le altre considerazioni. Efficienza che ci servirà per affrontare la gigantesca transizione che ci attende.

Alla luce di simili considerazioni gli investimenti in nuove infrastrutture come gasdotti, interconnettori e rigassificatori rischiano di non farsi trovare pronti alla prova del futuro. Innanzitutto, per quanto riguarda sia gli obiettivi climatici di Parigi (riscaldamento globale entro i 2°C rispetto all'era preindustriale) che l’ancora più ambizioso impegno ribadito sia al G20 del 2020 a Presidenza italiana sia durante la COP26 di Glasgow (riscaldamento entro 1,5°C), la costruzione di nuove infrastrutture votate all’utilizzo di nuove risorse fossili rischia di spingerci in una direzione diametralmente opposta.

È solo di un anno fa (maggio 2021) l’allarme lanciato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) che, nella sua roadmap verso un mondo decarbonizzato al 2050, chiedeva uno stop alla messa in opera di nuove risorse fossili. Allarme che, benché sia poi stato leggermente rivisto in virtù anche del mutato scenario geopolitico, resta comunque valido. E lo è ancora di più se letto insieme al successivo (febbraio 2022) assessment dell’IPCC sugli effetto del cambiamento climatico; allo studio, diffuso tra il grande pubblico dal quotidiano inglese “the Guardian”, sulle cosiddette “carbon bombs” o bombe climatiche, cioè una serie di progetti di esplorazione ed estrazione di combustibili fossili che, se avviati, sarebbero capaci di emettere nell’arco del loro ciclo di vita almeno 1 miliardo di tonnellate di CO2 (cioè 1 gigatonnelata) a fronte di un carbon budget (cioè quante tonnellate di CO2 possiamo ancora emettere in atmosfera) che va ogni giorno sempre più assottigliandosi (siamo a 300Gt per lo scenario +1,5°C; poco più di 1.000Gt per quello +2°C); ma soprattutto lo è se messo in relazione alla nostra esperienza quotidiana che ci sta abituando sempre più a fenomeni climatici e metereologici estremi: dalle alluvioni avvenute in Belgio e Germania nell’estate del 2021, alla terribile ondata di calore che sta avvolgendo tutta Europa in questa rovente estate 2022.

Più complessa la valutazione da un punto di vista geostrategico-industriale. Innanzitutto, nuovi gasdotti rischiano di andare a replicare medesime dinamiche di dipendenza, con la sola differenza di cambiarne i soggetti. Vediamo infatti già oggi l’Algeria che, neanche il tempo di entrare in questo nuovo ruolo di cavaliere bianco in soccorso di Italia ed Europa, ha già iniziato un braccio di ferro sulle forniture di gas col vicino Marocco che ha visto il coinvolgimento (e la riduzione delle forniture) della Spagna. Lo stesso si può dire della Turchia che sta giocando un’importante partita strategica nel Bacino del Levante per cercare di divenire il fulcro delle nuove vie del gas verso l’Europa, così da aumentarne ancor più la leva politica con Bruxelles (non bastasse quella dei migranti). Discorso diverso per i rigassificatori che invece hanno il vantaggio di permettere l’accesso al mercato del GNL che, come già detto, essendo globale permette di svincolarsi dallo stretto rapporto cui obbliga un gasdotto. Entrambi però rimangono vittime delle leggi del mercato.

In uno scenario in cui il ruolo del gas all’interno dei mix energetici europei si vorrebbe vedere iniziare a decrescere per essere in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050, come poter evitare che tutte queste nuove infrastrutture si trasformino presto in stranded assets (investimento che perde valore prima del tempo previsto dal normale ciclo di vita)? Per risolvere il dilemma oggi si fa un gran parlare di idrogeno.

La vulgata vuole che gasdotti e rigassificatori reggeranno alla prova del futuro perché potranno essere riutilizzati per trasportare in Europa idrogeno, specie nella sua forma climaticamente neutra detta anche “verde” (cioè generato per elettrolisi dell’acqua mediante l’uso di elettricità proveniente da fonte rinnovabile, quindi senza emissioni di CO2) che avrebbe così il grande vantaggio di allungare magicamente l’orizzonte temporale di vita utile di infrastrutture oggi necessarie ma di dubbio uso futuro, garantire all’Europa un nuovo combustibile questa volta però decarbonizzato e infine creerebbe enormi possibilità economiche per il finanziamento di faraonici piani di sviluppo di nuova capacità rinnovabile nei Paesi potenzialmente fornitori di idrogeno (si immagina Nord Africa e Paesi del Golfo).

Posta anche la possibilità di riuscire a sviluppare davvero questa enorme capacità di produzione rinnovabile (ricordiamo che circa 1/3 dell’elettricità necessaria per produrre idrogeno verde viene perduto nel processo di elettrolisi), che peraltro a livello sistemico, in un mero calcolo di riduzione delle emissioni, sarebbe più efficiente utilizzare per decarbonizzare i consumi finali di energia locali, la prima cosa da chiedersi è cosa farsene di tutto questo idrogeno. Scartiamo subito la possibilità di usarlo per il trasporto leggero (automobili) dove già oggi il motore elettrico è circa 3 volte più efficiente rispetto a quello a idrogeno. Allo stesso modo pensare di utilizzare l’idrogeno in alternativa al gas come fonte di riscaldamento dei nostri edifici, oltre a richiedere importanti investimenti per la sostituzione delle caldaie e per l’adattamento delle reti di distribuzione gas in reti per la distribuzione di idrogeno (oggi quando si parla di gasdotti “hydrogen ready” si fa riferimento alle dorsali di trasmissione del gas non alla rete di distribuzione che arriva alle nostre case), non tiene conto che le attuali pompe di calore alimentate a elettricità hanno un livello di efficienza maggiore di oltre 5 volte rispetto a delle ipotetiche caldaie a idrogeno.

Medesimo discorso per quanto riguarda l’utilizzo dell’idrogeno come vettore per l’accumulo di energia rinnovabile. Anche qui le attuali batterie a ioni di litio già oggi hanno un’efficienza di oltre 3 volte superiore all’idrogeno (su questo punto l’idrogeno potrà forse ricavarsi un ruolo solo tra diversi decenni quando l’energia rinnovabile sarà così abbondante che allora il parametro dell’efficienza diverrà secondario rispetto alla durata dell’accumulo; in quel caso l’idrogeno gode di un vantaggio innegabile – stoccaggio per mesi/anni - rispetto alle odierne batterie - ore/giorni).

Dove invece molto probabilmente l’idrogeno potrà giocare un ruolo importante nei futuri processi di decarbonizzazione è plausibilmente quello industriale (acciaierie, cartiere, produzione di alluminio, chimica, ceramica, fertilizzanti…) e auspicabilmente quello del trasporto aereo e marittimo. Il che non è sicuramente poco se si considera che questi settori assieme oggi constano circa il 30% delle emissioni climalteranti complessive. Il messaggio chiave è quindi che l’idrogeno, benché potrà sì giocare un ruolo importante nei processi di decarbonizzazione delle nostre economie al 2050, lo farà con volumi e utilizzi molto più ristretti rispetto a quelli odierni di gas e petrolio, dato che già oggi esistono soluzioni tecnologiche (motori elettrici, pompe di calore e batterie) molto più efficienti.

Fatta questa premessa, appare chiaro che il mercato che si svilupperà procederà con molta gradualità. Nelle prime fasi (5-10 anni) è molto plausibile aspettarsi che si svilupperà un mercato dell’idrogeno prevalentemente locale, con una produzione relativamente vicina ai luoghi di consumo così da minimizzarne i costi di trasporto che nelle prime fasi avranno un’importante incidenza, visto che l’idrogeno verde ha costi di produzione più alti rispetto ai suoi omologhi prodotti da carbone o gas (già oggi esiste un mercato dell’idrogeno che si aggira intorno alle 100 milioni di tonnellate annue; prima fase sarà sostituire questo idrogeno fossile con idrogeno verde). Nelle fasi successive, con una riduzione dei costi di produzione dell’idrogeno verde, grazie alle economie di scala e al progresso tecnologico, compresa una crescita dei volumi, vi sono buone possibilità che un commercio internazionale dell’idrogeno possa effettivamente svilupparsi tra aree a bassa domanda e bassi costi di produzione (si pensi al Nord Africa, assolato e relativamente poco industrializzato) e aree a più alta domanda e più alti costi di produzione (Nord Europa, poco assolato e altamente industrializzato).

Giustamente si porrà la questione di come trasportare questo idrogeno. E su questo punto i rigassificatori odierni non sembra potranno esserci d’aiuto. L’idea di trasportare idrogeno liquido va infatti subito scartata. Benché una simile soluzione sia già stata sperimentata, per esempio nella tratta Australia-Giappone, essa presenta però costi e difficoltà tecniche (si pensi banalmente che l’idrogeno ha temperatura di liquefazione bassissima) talmente elevate che difficilmente lo vedremo imporsi a livello globale, se non in casi eccezionali. Alternative interessanti potrebbero essere i cosiddetti combustibili derivanti dall’idrogeno, ammoniaca (idrogeno + azoto) e gas sintetico (idrogeno + CO2). Il primo caso risulta molto interessante perché già oggi esiste un commercio internazionale dell’ammoniaca e, se i volumi scalassero, si potrebbe pensare di adattare, con investimenti tutto sommato contenuti, gli odierni rigassificatori per la ricezione di ammoniaca. Qui il problema vero è cosa farne di tutta questa ammoniaca dato che, a parte qualche nuovo utilizzo come per esempio nel trasporto marittimo, difficilmente potrà avere altri ruoli importanti. Quindi per avere un ruolo negli usi industriali che abbiamo citato prima andrebbe nuovamente ritrasformata in idrogeno, con importanti perdite energetiche e quindi con un livello di efficienza bassissimo.

Per quanto riguarda il gas sintetico, questo avrebbe il grandissimo vantaggio di essere compatibile con tutta l’infrastruttura odierna. Tuttavia, per essere prodotto richiede enormi quantità di CO2, quindi processi di cattura e stoccaggio di questo gas che a oggi non esistono su larga scala e hanno costi molto elevati. Discorso diverso per i gasdotti. I più recenti sono già pronti a trasportare idrogeno e anche i più vecchi possono essere resi in grado di farlo con investimenti relativamente contenuti. Però anche qui, oltre a permanere la questione di stretta dipendenza cliente-fornitore, rimane da chiedersi a quanto ammonteranno i volumi di idrogeno che verranno scambiati e quindi quanta capacità di trasporto via tubo effettivamente servirà.

Pianificare nuove infrastrutture di questo tipo con tutte queste incognite diventa davvero difficile soprattutto perché, benché se ne parli molto poco, esiste un’alternativa: quella delle interconnessioni elettriche, che ha molta più aderenza a quelle che saranno le condizioni che già oggi vediamo che verranno a crearsi nel corso dei prossimi anni. Le interconnessioni elettriche, che peraltro hanno un’incidenza sull’ambiente locale estremamente più bassa rispetto a un gasdotto, danno infatti immediatamente accesso a un bene come l’elettricità rinnovabile di cui si può fare già oggi un uso quasi ubiquo (oltre agli attuali, anche la mobilità, il riscaldamento e molti usi industriali).

L’elettricità ha poi il grande vantaggio di essere facilmente distribuibile, potendo contare su una rete di distribuzione capillare sviluppatasi nel corso dei precedenti decenni. Le crescenti interconnessioni e la crescente densità della rete elettrica avrebbe poi l’innegabile vantaggio di contribuire sempre più alla sicurezza e tenuta dei sistemi elettrici. Immaginiamo la rete elettrica come un’enorme infrastruttura che deve sempre vibrare alla medesima frequenza (in ogni istante la produzione elettrica deve eguagliare il consumo di elettricità; questa uguaglianza è declinata nella frequenza della rete elettrica che deve sempre trovarsi entro un determinato range di valori, pena il crollo del sistema, più comunemente noto come blackout). Più grande è la rete più difficile è perturbarne la sua vibrazione. Significativo è che durante le prime fasi della guerra in Ucraina e l’attacco russo alle centrali nucleari ucraine, la contromossa sia stata quella di sincronizzare la rete elettrica ucraina a quella europea. Allo stesso modo più grande è la rete più facile sarà integrare sempre più generazione intermittente e non programmabile (rinnovabili), in quanto per semplice regola statistica diverrà più facile da prevedere e calcolare, cosicché i capricci del singolo impianto avranno peso relativo sempre minore.

Se prendiamo però oggi una cartina che mostri le interconnessioni elettriche del continente europeo con i suoi vicini (molto ben fatta è la mappa interattiva presente sul sito di Entso-e, l’associazione dei gestori di reti elettriche europei) vediamo oggi il nostro continente essere collegato solo con il Marocco attraverso la Spagna. Al momento tutti gli altri elettrodotti, da quelli che dovrebbero collegare l’Italia con la Tunisia e con l’Algeria, a quelli che dovrebbero collegare la Grecia e Cipro con Israele (Eurasia interconnector) o con l’Egitto (Eurafrica interconnector), rimangono ancora dei progetti. Peccato perché questi progetti renderebbero immediatamente fruibile un’eventuale nuova generazione rinnovabile creata in quei Paesi, nonché favorirebbero la creazione di un mercato, per esempio mediante la stipula di contratti di lungo termine tra eventuali sviluppatori e possibili importatori europei che eliminerebbe molte di quelle incertezze che oggi frenano un vero decollo del settore in queste aree.

La necessità di risolvere oggi la crisi del gas è reale e va affrontata. I problemi che affrontiamo oggi derivano da scelte sbagliate nei decenni precedenti. A inizio anni Duemila in Italia era in pianificazione la costruzione di 10 rigassificatori. Oggi a distanza di quasi vent’anni ve ne sono solo 3, di cui uno molto piccolo. Queste erano sfide del passato che, per errori dell’epoca, ci troviamo oggi a correggere. Questo non vuole dire che la nostra politica energetica debba procedere con lo sguardo nello specchietto retrovisore o giustificare delle scelte oggi necessarie con delle aspettative di un futuro lontano difficile da prevedere. 

Il rischio che poi si corre è quello di perdere quelle che saranno invece le vere sfide del futuro prossimo che è già qui. Una su tutte quella per l’accesso alle risorse minerarie e la costruzione delle capacità manifatturiere di quelle che saranno le tecnologie chiave per la trasformazione energetica delle nostre società: che una domanda dell’idrogeno davvero si sviluppi e che delle dinamiche di commercio internazionale, nelle diverse forme che potrà prendere (da quella via tubo a quella via nave mediante combustibili derivati), è offuscato nelle nebbie di un futuro lontano.

Certo è che un’enorme capacità rinnovabile, che sia per alimentare un’economia elettrificata o per produrre idrogeno verde, andrà installata. E che buona parte di questa nuova capacità rinnovabile sarà solare (definito non a caso “the new king of electricity” dall’AIE) lo si evince facilmente dai piani europei al 2030 dove si prevede che la capacità solare dell’Unione Europea dovrà quadruplicare, passando dagli attuali 160GW installati ad oltre 600GW (non è un caso che nel piano REPpowerEU sia prevista una specifica  strategia europea per il solare). E tutto questo si dovrà fare in un contesto in cui la Cina controlla oggi lungo tutta la filiera del solare (dalla materia prima che è il polisilicio, agli inverter, al pannello fotovoltaico vero e proprio) una quota pari a circa l’80% ed è lanciata, stanti gli attuali piani di investimenti, a raggiungerne il quasi totale monopolio (95%) nel corso dei prossimi tre anni.

Tutte queste sono domande e considerazioni da porsi quando si vuole disegnare una strategia energetica e un piano infrastrutturale che sia, per quanto possibile, a “prova di futuro”.

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